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Affitto d’azienda e fallimento del concedente

La sentenza dichiarativa di fallimento del titolare dell’azienda affittata non costituisce una causa di scioglimento del contratto d’affitto d’azienda: al contrario, può essere autorizzata la prosecuzione dello stesso Tribunale, nella sentenza dichiarativa di fallimento (c.d. “esercizio provvisorio”).
Ciascuna parte può recedere dal contratto, entro 60 giorni dalla sentenza di fallimento, corrispondendo un equo indennizzo alla controparte, determinato di comune accordo, oppure – in mancanza – dal giudice delegato, sentiti gli interessati (art. 79 del R.D. 267/1942). A questo proposito, il Tribunale di Rimini, con provvedimento del 24.3.2015, ha sostenuto che non è affetta da invalidità la clausola contrattuale inserita in un contratto di affitto d’azienda, che preveda un ampliamento della facoltà di recesso in favore del curatore fallimentare, in deroga a quanto già previsto dall’art. 79 del R.D. 267/1942. In particolare, è stata considerata efficace la clausola secondo cui, nell’ipotesi di fallimento della parte locatrice durante il periodo di durata dell’affitto d’azienda, la possibilità di recesso era riconosciuta soltanto al curatore, in qualsiasi momento, anche successivamente al termine dei 60 giorni stabilito dalla predetta norma concorsuale, purché con preavviso di almeno tre mesi. Tale disposizione non è stata, pertanto, ritenuta inderogabile nel contesto di convenzioni concluse da un’impresa in crisi e in un’ottica di rafforzamento della tutela dei creditori nel caso di apertura del fallimento.
Nel caso di recesso da parte del fallimento, per il tramite del curatore, l’indennizzo dovuto alla controparte costituisce un credito prededucibile, ai sensi dell’art. 111, co. 1, n. 1), del R.D. 267/1942. In altri termini, si tratta di un debito che la procedura concorsuale deve estinguere prioritariamente, insieme alle spese della procedura concorsuale, rispetto ai debiti maturati prima della sentenza dichiarativa di fallimento (dipendenti, fornitori, Erario, ecc.). Si tratta di una somma avente natura indennitaria (equitativa) e non risarcitoria, costituendo il corrispettivo dell’esercizio della facoltà di recesso concessa dalla legge (Trib. Udine 3.5.2013), dovendo essere commisurato al:

  • danno emergente, relativo al pregiudizio derivante dall’interruzione delle lavorazioni in corso, delle eventuali penalità da pagare a terzi e dall’entità degli investimenti effettuati;
  • lucro cessante derivante dal mancato incasso degli utili netti che possono maturare nel periodo rimanente di vigenza del contratto – ma non dell’avviamento (Cass. 3775/1994) – che lo stesso comporta, provocando la cessazione del rapporto e la restituzione dell’azienda.

Si segnala, infine, che dal 15.7.2022, attuale data di entrata in vigore del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, cambierà la qualificazione di tale credito, da prededucibile a concorsuale (art. 184, co. 1, del D.Lgs. 14/2019).